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Camminando con la solita lentezza, il poeta
Agnolo Poliziano assorbì con lo sguardo quell’immagine, ne trattenne l’attimo:
le grida delle donne chine a lavare i panni, i cavalli poco lontano ad
abbeverarsi, i pastori con le loro pecore.
La Firenze laurenziana stupiva per
l’imponente architettura e il trionfo d’arte che la rendeva unica agli occhi di
chi la osservava. Brunelleschi, Donatello, Masaccio furono tra gli artisti che
avevano dato alla città il suo nuovo volto, quello che Poliziano ammirava nella
sua passeggiata. L’aria tiepida di aprile e i colori radiosi di un’esplosa
primavera avvolgevano le forme floride della città che tutti chiamavano la
Dominante.
Venezia era stata battuta, l’alleanza con il
ducato di Milano, che da quando era subentrato Galeazzo Maria Sforza si era
inasprita, sembrava ora migliorata, così come i legami con la Chiesa. Lorenzo
di Piero de’ Medici, pur giovanissimo, fu abile a gestire con diplomazia e
ordine i rapporti con gli altri stati, una dote che Cosimo il Vecchio, suo
nonno, gli aveva trasmesso.
Osservando col naso per aria, totalmente rapito
dalla maestosità della Cupola, Poliziano si ritrovò a mormorare una frase
dell’architetto e umanista Leon Battista Alberti: “Structura si grande, erta
sopra e cieli, ampla da coprire con la sua ombra tutti e popoli toscani”.
Affrettò il passo diretto a Palazzo de’
Medici dove Lorenzo aveva chiesto di incontrarlo insieme ai suoi uomini di
fiducia e al fratello Giuliano.
Al tramonto, con la luce velata d’oro, il
palazzo di via della Larga, voluto da Cosimo il Vecchio, splendeva della
potenza di una fortezza unita all’eleganza di una dimora signorile.
L’umanista aveva quasi raggiunto il portone
d’ingresso, quando si bloccò improvvisamente notando qualcuno uscire come un
ladro da una porta secondaria.
Era una persona di media statura avvolta da
un ampio mantello color amaranto. Poliziano fece un passo indietro per
nascondersi e dall’angolo cercò di mettere a fuoco l’estraneo. Non vi erano
dubbi che fosse una donna: si intravedeva l’ampia gonna di seta.
La sconosciuta si sistemò il bavero del
mantello lasciando scivolare sulle spalle ciocche di riccioli biondi, poi si
guardò intorno impaurita voltando più volte il viso arrossato e il poeta
finalmente vide i suoi occhi grigi smarriti. La riconobbe.
Perché mai Simonetta Cattaneo avrebbe dovuto
comportarsi come una clandestina in quel palazzo dove era sempre entrata a
testa alta?
Perché recarvisi all’ora del vespro, coperta
da un lungo mantello?
La fanciulla alzò lo sguardo verso una
finestra da dove apparve il volto dalla mandibola pronunciata e il naso
affilato di Giuliano. Il principe, anch’egli rosso in faccia e con lo sguardo
fisso su di lei, come se nient’altro vi fosse intorno, le mandò un bacio prima
con lo sguardo e poi portandosi una mano alle labbra. Allora era vero quanto si
diceva in città della liaison tra Giuliano de’ Medici e Simonetta Cattaneo
Vespucci, pensò il Poliziano.
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Donna
Simonetta veniva dal mare, non poteva essere diversamente per colei che sarebbe
diventata la Venere che nasce dalle acque. Nacque dai nobili genovesi Gaspare
Cattaneo della Volta e Catocchia Spinola il ventotto gennaio del 1453.
Splendente di grazia, parlava poco e si esprimeva con un leggero accento
ligure, sorrideva abbassando gli occhi chiari e tratteneva nella sua
espressione tutte le parole e i pensieri che avrebbe voluto dire ma che
preferiva riservare a pochi. Si diceva che fosse testarda e che non si era mai
adattata alla vita fiorentina, frequentava una ristretta cerchia di
aristocrazia e le piaceva stupire con le sue stranezze trattenute da una
calcolata ingenuità. Era inconsapevole della sua bellezza, ma, quando essa
sbocciò prepotente, capì che era un dono da sfruttare e prese gusto a giocarci
per lasciarsi ammirare e farsi desiderare. Per questo e tanti altri motivi
ancora Botticelli ricreò la sua immagine nei suoi dipinti, infatuato dal
mistero che la giovane emanava.
Simonetta,
andando incontro alla sua nuova vita, capì presto che la realtà era ben diversa
dal sogno che faceva quando teneva Marco per mano nel giardino degli Appiani. Suo
marito, dopo i primi mesi di idillio, la lasciava spesso sola per dedicarsi
totalmente al suo futuro nel Banco dei Medici. Al ritorno dai suoi viaggi la
giovane sposa trovava tracce dei suoi tradimenti nello sguardo sfuggente, nel
profumo non suo, nei gesti irriverenti e audaci. Marco Vespucci era cresciuto
in fretta nell’ambiente delle banche e del commercio, che non cedeva posto ai
sentimenti. La brama di potere, il denaro facile e il suo aspetto attraente che
le donne apprezzavano, ne avevano fatto un arrivista senza scrupoli e un marito
infedele. Sua madre l’aveva preparata: d’ora in avanti la sua esistenza doveva
essere dedita al marito e alla sua nuova famiglia, Simonetta avrebbe dovuto
rispettare i doveri di moglie, mettere al mondo dei figli, possibilmente
maschi, essere sempre ben educata ed elegante in società e dimostrare cultura
senza mai eccedere. La lista di regole diventava ogni giorno più opprimente e
ingestibile per la sua giovane età ribelle.
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Nella
bottega regnava il caos e l’odore delle tempere e della colla. Un gran numero
di tele era accatastato in un angolo, alcune incompiute, altre pronte per
essere laccate e consegnate, e poi ancora cartoni con disegni in carboncino
abbozzati, cenci, cavalletti, lunghe tende a nascondere le opere più
importanti. Le voci allegre e chiassose del maestro e dei suoi allievi si
zittirono improvvisamente. Il più giovane dei praticanti arrossì, fece un goffo
inchino rivolto ai visitatori e tentò un sorriso che morì sulle labbra, poi si
rimise a tritare i colori vicino ad altri colleghi indaffarati a cuocere le
colle e ad applicare l’imprimitura sulle tele. Piero Vespucci, entrando,
rivolse subito lo sguardo alla pala su cui il maestro stava lavorando, mentre
Simonetta da un angolo curiosava tra la colorata confusione. Pur immobile, la
sua grazia si muoveva e il profumo di rosa lasciava un’intensa scia. Le mani di
porcellana adagiate sul grembo, le labbra leggermente aperte nello stupore, i
riccioli d’oro che le scendevano sul viso ovale: era di una bellezza senza
fine, mostrava uno sguardo che penetrava le cose e sorrideva nel notare
particolari invisibili ad altri occhi. “Ha del sorprendente il modo in cui
riuscite a dare eleganza a un’immagine così energica e austera. Non sembra
neppure seduta sul trono di marmo la vostra Fortezza, fluttua, si erge insieme
alle sue virtù.” Piero Vespucci si soffermò a osservare meglio il volto del
soggetto del quadro ed ebbe il pensiero di tutti: quel volto ricordava quello
di Simonetta, ma essendo una commissione di casa Medici preferì tacere. “Lo
sguardo è così malinconico, maestro,” disse la giovane, la sua voce lo fece
fremere, così fresca, intensa, con tutte le increspature di gioviale allegria.
È il vostro sguardo Simonetta, avrebbe voluto dire ma si limitò a sorriderle
con gratitudine.
“Maestro,
so che state lavorando a una Giuditta e che siete molto occupato, ma conoscete
bene quanto desideri una vostra madonna per il mio palazzo, se poteste
accontentarmi…” disse Piero senza riuscire a distogliere lo sguardo
dall’immagine della donna dipinta sulla pala. Riconfermò il suo primo pensiero:
gli occhi, il delicato ovale del viso, il collo leggermente piegato erano
simili a quelli di sua nuora, troppo simili.
“Dovete essere
fiero di dare l’immagine a Giuditta, una donna seducente e spietata, coraggiosa
come pochi uomini. Dipingendola farete giustizia al genere femminile per tutta
la violenza che deve subire.”
Non era quella una
frase che ci si aspettava dalla timida Simonetta. La voce che la fanciulla
sotto la sua delicata innocenza fosse anche imprevedibile e sfacciata era
verità dunque. Piero Vespucci, visibilmente a disagio, allontanò la nuora,
mentre il maestro non si scompose, era affascinato da quella personalità così
complessa.
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Capì che se ne sarebbe andato, che non lo avrebbe rivisto
per molto tempo. Lo comprese dal bacio che la colse all’alba, un bacio lento,
ingordo come i baci d’addio.
Gli abitanti del palazzo si stavano svegliando e nessuno
doveva trovarlo in quella stanza.
Simonetta rimase
immobile sul letto, con gli occhi ancora colmi d’amore, ascoltando il rumore
degli zoccoli del cavallo che si allontanavano. Si toccò i fianchi, portò le
mani sul petto palpitante e con le dita si sfiorò le labbra ancora umide dai
baci, provò ad addormentarsi solo per sognarlo ma dormire fu impossibile.
Le loro rose erano
sparse ovunque, Simonetta ne volle mettere alcune sul letto e respirò forte
quel profumo, si inebriò della fragranza dolce e agra. Un raggio di sole entrò
con violenza accecandole gli occhi ancora pieni di sonno e d’amore, si mise
seduta e chiamò il segretario, sperando che nessuno se ne accorgesse. Non era
permesso a una nobildonna fare entrare nella sua camera da letto un segretario,
inutile spiegare che il loro rapporto era fatto di complicità e affetto.
Nessuno avrebbe capito, nessuno avrebbe mai accettato che i due passavano ore a
confidarsi e a raccontarsi favole, che si scambiavano le poesie di Petrarca e
adoravano canticchiare i motivetti musicali di Gilles Binchois con i testi in
francese suonati a ogni banchetto, nessuno li notava mentre scappavano dai
ricevimenti di rappresentanza per andare nella bottega di Botticelli.
Simonetta aveva
bisogno di levarsi il sogno di dosso e fermarsi nella realtà, quel sentiero
ovattato rischiava di inghiottirla. Gilberto entrò a testa bassa con
un’espressione rispettosa a cui Simonetta non badò.
“Devo uscire da qui e allontanarmi per qualche ora.”
“Dove andrete,
madonna? E io che dirò?”
“Direte che sono
andata in chiesa o all’orfanotrofio di San Marco.”
“Non mi crederanno.”
“È probabile.”
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Aveva
ragione Marco, le voci sul loro matrimonio non erano rassicuranti, Vespucci era
considerato a Firenze come un giovane arrogante e ambizioso, ingrato ai Medici,
nonostante tutti i favori resi alla sua famiglia. Un fiorentino che non
parteggiava per la sua città e anzi, preferiva fare carriera e confabulare, con
gli altri stati. Per dirla tutta … degli altri stati preferiva anche le donne.
Ascoltando
quelle accuse nelle osterie, dove spesso la sera andava a ubriacarsi, sentì il
sangue andargli alla testa e dovettero intervenire alcuni amici per impedirgli
di provocare una rissa.
Sua
moglie, con tutte le sue imprevedibili stranezze e le sue improvvise fughe, non
solo non era capace di dargli un figlio ma forse aveva una relazione con
Giuliano de’ Medici e con chissà chi altri, eppure i fiorentini parteggiavano per
Simonetta. In qualsiasi altra signoria a un’adultera venivano inflitte
punizioni terribili, rischiava anche il patibolo, ma per Firenze, Simonetta
Cattaneo era il Rinascimento e la sua bellezza divina era intoccabile.
Se
prima aveva avuto dei ripensamenti, adesso era sicuro: Duccio Lentini doveva
finire quello per cui lo avrebbe pagato. Dai suoi ultimi rapporti era chiaro
che la relazione tra Giuliano e Simonetta non era platonica.
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Né Gilberto Pedrini, né la sua signora, avevano dimenticato
quel tragico pomeriggio. Il ricordo della lotta furibonda, del tagliacarte
conficcato nella schiena dell’assalitore e di tutto quel sangue era ancora vivo
nella memoria ma da quel giorno evitarono di parlarne. Uniti in un tacito
accordo si sostenevano con piccoli gesti facendosi coraggio a vicenda.
In quella strana primavera del 1474 una leggera nebbia
lambiva ogni mattina gli argini dell’Arno. La figura di Simonetta sulla sua
cavalla bianca, che si allontanava nella foschia ed entrava nel bosco vestita
di veli e sete candide, era quasi irreale, la donna ormai viveva in una delle
sue tante fiabe. Quella mattina, però, nel bosco, ad aspettarla non c’era il
sommo pittore, bensì il suo amato. Come lo vide fermò la sfrenata corsa di
Daphne e rimase immobile con gli occhi colmi di lui. Il suo Medici era davanti
a lei con il suo sorriso seducente, era bellissimo nel suo mantello rosso
svolazzante e il petto gonfio e fiero come quello del suo cavallo nero.
“Sembrate Diana nel bosco o la dea Artemide,” disse senza
staccarle gli occhi di dosso. “Giuliano, vi sapevo a Roma … mio signore,”
balbettò chinando il capo in segno di reverenza. “La mia candidatura a
cardinale, fino a quando i nipoti di Sisto IV eserciteranno potere a man bassa,
non potrà mai realizzarsi e neppure in seguito potrà avvenire,” disse alzando
la voce disturbata dal cinguettio assordante degli uccelli nella radura. “E i
vostri viaggi nelle corti italiane? Anche la vita mondana ha trovato ostacoli?”
Era la prima volta che Simonetta si mostrava gelosa e si
rivolgeva a lui in modo quasi sfrontato. Il rossore sulle gote e una leggera
insolenza la rendevano ancora più irresistibile.
Si misero seduti su un grande masso sotto le fronde di una
quercia, Simonetta si scostò quando Giuliano tentò di baciarla ma poi cedette
all’abbraccio disperato e posò la testa sul suo petto sentendo il battito del
cuore impazzito del suo Medici.
“Siete in grave pericolo, promettetemi che starete attento,
non dovete sottovalutare niente e nessuno,” fu l’unica cosa che poté dirgli.
Giuliano disse a Simonetta di non stare in pena per lui perché aveva buoni
informatori e soprattutto un’ottima guardia a fargli da scorta. Le mani
intrecciate, i respiri vicini, le carezze lievi erano il loro modo di parlarsi
in quel lungo silenzio.
“Vi libererò da questo matrimonio ignobile.” Si destò da
quella sorta di incantesimo. Simonetta capì esattamente cosa intendeva dicendo
libererò e deglutì stropicciando con forza un lembo di veste.
Da lontano Botticelli li osservò e si riempì gli occhi
della bellezza e della grazia che emanavano insieme.
Di getto, guidato dal pathos del momento, catturò
quell’attimo, gli sembrarono due personaggi mitologici in mezzo alla natura ed
emanavano un’armonia senza fine. Il maestro abbozzò un primo disegno, un primo
vagito di quello che sarebbe diventato il suo quadro più celebre: La Primavera.
In quel preciso istante la ninfa Cloris guardava con amore Mercurio per
l’eternità.
Non scalfire la sua perfezione Giuliano, non rovinarle
l’anima. Non te lo permetterò, pensò il pittore.
Giunsero alcune guardie armate per controllare l’ordine
nelle tenute dei Medici.
“Non avanzate in quella direzione, madonna, vi è il recinto
dei leoni, la gabbia è sicura ma è meglio evitare rischi e pericoli. Buona
passeggiata, madonna Vespucci.” La dama ringraziò con un cenno del capo e un
sorriso un po’ impacciato e, appena le guardie sparirono dalla sua vista,
sollevò la veste e si diresse verso i felini.
Fu un momento carico di meraviglia e tensione.
Gli occhi grigi di Simonetta incontrarono quelli ribelli e
profondi del leone, fu come se lo spirito felino dell’animale entrasse nella
donna per darle forza e fierezza. Si avvicinò ancora, questa volta con estrema
delicatezza, aveva l’espressione dolce e assorta. Il leone smise di ruggire e
di agitarsi, camminò avanti e indietro per poi accucciarsi con la sua magnifica
mole di muscoli. Con un coraggio inconsapevole Simonetta allungò una mano verso
il felino e ne accarezzò la criniera folta e ispida.
Vi fu un ultimo, penetrante sguardo tra loro, poi donna
Vespucci si allontanò con la testa china e le mani sul grembo spostando foglie
e terra sotto la sua veste mentre camminava. Botticelli non raccontò mai quella
scena, non era sicuro neppure lui che fosse reale.
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Simonetta non lo aveva più
incontrato e aveva anche terminato di posare come modella per i suoi dipinti.
In preda alla nostalgia per la sua
musa, seppe dove trovarla.
Era nel suo Eden, nell’Orto di
Clarice, ma stentò a riconoscerla, era visibilmente dimagrita, con sguardo
sofferente camminava adagio a passi incerti, spesso si sorreggeva alla sua dama
di compagnia o a Gilberto che non la abbandonava mai. La scena gli straziò il
cuore. La sua Venere non poteva perdere forza, non poteva sbiadire o sciupar si.
Preferiva dare vita al suo ricordo che vederla così. No, non poteva immaginarla lontana
dall’Olimpo, così vicino alla terra!
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“Lo
avreste mai detto, padre? Sono più disonorato adesso, che Simonetta non c’è
più, di quando era in vita!”
Piero
lo lasciò sfogare, la sua ira era irrefrenabile. Il guanto che copriva il polso
senza più la mano, forse era il male minore. Giuliano de’ Medici gli aveva
tolto il potere, il denaro, la moglie.
Di
fronte al tradimento qualsiasi donna avrebbe pagato con la morte o avrebbe
subito punizioni esemplari per castigare
la sua depravazione. Simonetta no! Simonetta Cattaneo Vespucci era una musa,
una dea, c’è chi pensava persino che facendole del male si potesse subire il
castigo divino.”
“Calmatevi
figliolo, parlate comunque di una persona morta,” lo disse senza alcuna pietà.
“I
fiorentini la ricordano ancora accanto a Giuliano, Poliziano
parla del loro amore in quella sua opera e Botticelli dipinge solo lei. Sì,
sono l’uomo più disonorato d’Italia.”
“Avremo
la nostra giustizia, Marco. Ricordatevi che Jacopo de’ Pazzi non ha mai
dimenticato il torto dei Medici e gli anni di esilio. Dategli il tempo di
trovare gli alleati giusti e non parlo solo dei repubblicani fiorentini, oh no…
di questa congiura farà parte lo stato della Chiesa, il regno di Napoli, il
duca di Urbino e altri ancora si uniranno.”
Piero
Vespucci parlò talmente piano che Marco fu costretto ad avvicinarsi a pochi
centimetri dal suo viso per ascoltarlo.
“Tutti
e due i fratelli Medici, padre?”
Piero
fece cenno di sì con la testa.
“E quando è previsto…”
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Tra il 1480 e il
1482 Lorenzo concesse alla Stato Pontificio, con cui cercava di migliorare i
rapporti politici, di mandare il suo primo pittore ad affrescare tre episodi
biblici nella Cappella Sistina. Dopo il suo ritorno a Firenze, Botticelli visse
il periodo più florido della sua carriera presso la corte dei Medici creando
tre favole mitologiche, capolavori che sarebbero stati in futuro il simbolo del
Rinascimento.
Nonostante
fossero passati tanti anni dalla morte di Simonetta e Giuliano, il pittore continuava
a vedere nitidamente i loro volti e li usò nei suoi dipinti unendoli alle
allegorie, agli elementi esoterici e misteriosi. Marte e Venere, il quadro che
più di tutti li rappresentò, mostrava una Simonetta con le sue abituali vesti
bianche bordate di oro, la quale, con la sua bellezza ideale, disarma l’intrepido
Marte che aveva il volto di Giuliano. Il dio della guerra giace addormentato
mentre quattro satiri si burlano di lui per essere stato sconfitto da Amore.
Lorenzo
approfittò dello slancio di ispirazione di Botticelli, la cui bottega era
frequentata ogni giorno dal poeta Poliziano, per commissionare un quadro per le
nozze del cugino Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici con Semiramide Appiani,
nipote di Simonetta. Un Medici e una Appiani, per il maestro fu come rivivere
il mito di Simonetta e di quell’amore sfortunato.
Quel quadro
viveva in lui già da tempo, sapeva esattamente che forma, anima e colori dare
al dipinto. Lo avrebbe intitolato Primavera.“Venere che le
grazie fioriscono, dinotando Primevera,” disse dell’opera il Vasari.
In un angolo di
bosco, proprio il luogo in cui il pittore incontrava la sua musa, su un prato
fiorito, dentro una natura rigogliosa e profumata, nove figure maschili e femminili sono i soggetti mitologici e allegorici che rappresentano il miracolo della vita racchiuso nella Primavera che Botticelli dipinse.
Fu da allora uno
dei quadri più emblematici e misteriosi della storia dell’Arte.
L’artista si
ispirò alla cultura mitologica dei poeti classici e la fuse alla bellezza
terrena creando un’immagine che sfuma tra il pagano e il celeste, fino a
celebrare un trionfo di pace e amore irraggiungibili.
“Zefiro soffia
così forte da piegare gli alberi, insegue Cloris e la feconda di fiori… ecco…
vedete? Qui, invece, i fiori escono dalla bocca e dal grembo di Flora, la
divinità della primavera,” disse l’artista a Poliziano con l’orgoglio che gli
circolava nel sangue e gli occhi lucidi di emozione.
Poliziano nell’ammirare
quell’armonia di forme e colori citò Ovidio: “Ero Cloris, io che ora sono
chiamata Flora”.
“Cloris e Flora
hanno il volto di Simonetta,” mormorò Botticelli sfiorando i personaggi del
quadro con un dito, ebbe quasi la sensazione, con quel gesto di toccare la
terra umida e cogliere i fiori che le due ninfe portavano addosso.
“Quello sguardo…
gli occhi di Cloris su Mercurio… sembrano attirati da una forza che li unisce
nell’infinito. Mercurio è Giuliano n’è vero? Lo sguardo, proprio quello sguardo…
ho avuto l’emozione di osservarlo tante volte e voi l’avete reso senza fine.”
“Anche voi li
avete resi eterni celebrandoli ne Le Stanze."
“Ho
preannunciato la morte di Simonetta nella mia opera poetica. Ricordate? Cupido arma Julio per affrontare la giostra e dopo la vittoria a lei dedicata, la sua amata gli viene tolta.”
Si avvicinò a
Botticelli, gli mise una mano sulla spalla e recitò rivolto al cielo, come se
lei potesse sentirlo: “Ivi tornar parea sua gioia in lutto;/ vedeasi tolto il dolce
tesauro,/
vedea
sua ninfa in trista nube avvolta,/ dagli occhi crudelmente
essergli tolta”.
Quando messer
Pedrini entrò trovò il poeta e il maestro con gli occhi lucidi e l’espressione
rapita che aveva visto solo negli artisti.
Era venuto a
prendere informazioni sulla consegna del quadro per le nozze di Semiramide con
Lorenzo il popolano.
La storia si
ripeteva: era al servizio di un’Appiani, una bellissima giovane donna dai
capelli biondi e le gote rosa come Simonetta e come Simonetta amava un Medici.
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Epilogo
“Muore giovane chi è caro agli
dei,” scrisse Menardo. La mia morte è stata celebrata più della mia vita. Per
essere madonna o dea, messaggio
universale di bellezza immutabile, non mi fu concesso compiere il mio ciclo
vitale.
Botticelli fu l’artefice della
mia eternità.
Prima di morire il maestro
espresse la volontà di essere sepolto nella chiesa di Ognissanti, proprio
vicino alla
mia tomba. Lo avevo lasciato
trentaquattro anni prima e da allora mi dedicò la sua anima e la sua arte: La Fortezza, che dall’alto
fa rispettare la virtù; Pallade, che ammansisce il centauro e gli fa superare gli istinti
umani attraverso l’Amore; Cloris e Flora de La Primavera e la Venere che nasce dalle
acque,
hanno la mia immagine. Senza più consistenza umana e individualità, fui
consacrata come un’icona in opere e dipinti che hanno sfidato i secoli. L’unica
persona che vide in me la donna che veniva dal mare, la fanciulla sognatrice in
cerca d’amore fu messer Guglielmo Pedrini.
Ora vivo nell’Eterno.
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